Il caso Cospito tra diritto e morale
di Luigi Santini
La sentenza della Corte di Cassazione sul caso Cospito crea una situazione inedita e, per molti versi, preoccupante. Come è noto, la pronuncia della Suprema corte chiude di fatto la strada ad ogni ulteriore intervento di natura giudiziaria, ma lascia aperto il problema sui possibili riflessi che ne scaturiscono. In effetti, la questione affrontata dalle corti di giustizia ai vari livelli, implica notevoli riflessi e riguarda aspetti di natura etica e sociale. Se l’anarchico, che continua a essere sottoposto al regime di carcere duro, rifiuterà, come ha sostenuto, di essere sottoposto a qualsiasi trattamento sanitario, il suo destino sembra irrimediabilmente segnato. La sua morte in carcere duro produrrà inevitabilmente manifestazioni di protesta e forse anche altri atti di terrorismo da parte di esponenti della galassia anarchica in Italia e altrove. Si rischiano, quindi, fratture e contrapposizioni che non giovano a nessuno. A ben vedere il problema è di natura squisitamente politica. La sofferta decisione della Suprema Corte non fa che buttare la palla laddove essa era dall’inizio. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, non può cavarsela, richiamandosi ai difformi pareri della magistratura, ordinaria, ma deve farsi carico di una questione ben più ampia. Il ministro guardasigilli potrebbe, con un semplice atto di autotutela, escludere il detenuto dai rigori del 41bis. In effetti, ora che lo Stato ha vinto la partita sul piano giuridico, una decisione di carattere politico, che tenga conto della peculiarità del caso, assegnando Cospito al regime di alta sicurezza. Sarebbe una scelta saggia e lungimirante sul piano morale e che avrebbe di certo l’immediato risultato pratico di prevenire una tragedia. Infatti, la morte dell’anarchico ne farebbe un martire, in uno Stato di diritto che non prevede la pena di morte.
Di fronte a tale scenario occorre porsi qualche domanda, riflettendo sulle radici del problema. Riflessioni che non si limitino alla vicenda in corso ma che cerchino di cogliere le ragioni che portarono, negli anni Novanta, a provvedimenti normativi approvati nel periodo nel quale si decise a fronteggiare l’offensiva mafiosa di lotta armata contro lo Stato. Con le norme previste dal 41bis si riuscì, in numerosi casi a indurre alcuni detenuti appartenenti alle organizzazioni malavitose a diventare collaboratori di giustizia. Con ciò si riuscì a fare luce su organizzazione e ruoli all’interno dei clan mafiosi. L’insostenibilità della strategia stragista ha spinto la mafia a trasformarsi in una potentissima holding. In essa i proventi del malaffare (a cominciare dallo spaccio di droga) sono stati progressivamente utilizzati per introdursi nell’economia legale. La mafia degli “affari” ha preso piede, insinuandosi nei settori più disparati del sistema economico, privilegiando il mondo degli appalti pubblici.
È ora di rivisitare la normativa sul 41bis sulla base anche del processo di trasformazione delle organizzazioni mafiose. La norma non è in discussione; ma vanno riesaminate le singole misure previste dall’articolo. Basterebbe fare riferimento alla pronuncia della Corte costituzionale, che – nel 2013 – giudicò impropria la limitazione dei colloqui dei detenuti con i loro difensori. Parimenti si è pronunciata la Consulta lo scorso sulla censura della corrispondenza con gli avvocati. Fa riflettere il fatto che la politica resti ferma, aspettando che sia la Corte costituzionale a sbrogliare la matassa. Sarebbe un’ennesima sconfitta della politica e una dimostrazione di inadeguatezza rispetto a problemi di natura etica e morale.