“IL RITO” di Ingmar Bergman; adattamento e regia di Alfonso Postiglione Nella foto (da sx) Giampiero Judica (Sebastian Fischer), Alice Arcuri (Thea Winkelmann), Antonio Zavatteri (Hans Winkelmann), Elia Schilton (Giudice Ernst Abrahmsson). Foto di Anna Abet

comunicato stampa
Al Teatro San Ferdinando dal 27 febbraio al 3 marzo va in scena
la versione teatrale del film del 1969 di Ingmar Bergman
IL RITO nella traduzione di Gianluca lumiento
e l’adattamento e la regia di Alfonso Postiglione

interpretato da

Elia Schilton, Alice Arcuri, Giampiero Judica, Antonio Zavatteri 
Il racconto, in nove quadri, di un accanimento ossessivo
di un giudice contro tre attori accusati di atti scenici “osceni”.
Una vicenda che sembra parlarci, e molto, del nostro presente.

Va in scena a Napoli Il rito di Ingmar Bergman nella “versione per il teatro” che il regista
Alfonso Postiglione, autore anche dell’adattamento del testo tradotto da Gianluca
lumiento, realizza dell’omonimo film del grande cineasta svedese.
Interpretato da Elia Schilton nel ruolo del Giudice Ernst Abrahmsson, Alice Arcuri (in
quello di Thea Winkelmann), Giampiero Judica (nei panni di Sebastian Fischer) e
Antonio Zavatteri (in quelli di Hans Winkelmann), dopo la “prima” al Campania Teatro
Festival 2023, lo spettacolo debutta martedì 27 febbraio al Teatro San Ferdinando, dove
resterà fino a domenica 3 marzo.
Le scene sono di Roberto Crea, i costumi di Giuseppe Avallone, le musiche di Paolo
Coletta, il disegno luci di Luigi Della Monica, la partitura fisica è di Sara Lupoli. Aiuto
regia Serena Marziale.
La produzione è del Teatro di Napoli–Teatro Nazionale, Ente Teatro Cronaca,
Campania Teatro Festival–Fondazione Campania dei Festival.
La sceneggiatura di Bergman realizza, in nove quadri, la descrizione dell’ossessivo
accanimento di un giudice contro tre attori di teatro che vengono denunciati e sottoposti al
suo giudizio per rispondere delle accuse di oscenità rivolte al loro ultimo spettacolo. Il caso
che si apre è affidato al giudice censore Abrahamsson a cui spetta l’analisi dei fatti e
l’eventuale condanna da comminare agli indagati qualora ritenuti essi colpevoli.
Dai colloqui iniziali con gli artisti, chiamati all’onere della prova, l’inquirente non riesce a
farsi un’idea chiara, così chiede ed ottiene dagli attori di allestire la performance nel suo
stesso ufficio e assistere in tal modo direttamente alle azioni sceniche incriminate.
E’ a questo punto che si sveleranno le oscure articolazioni dei rapporti intercorrenti tra i tre
accusati ma, allo stesso tempo, la potenza delle loro parole ed azioni infrangeranno il
simulacro di integrità dello stesso magistrato rivelando le sue fragilità e un’insospettabile
oscurità d’animo.

“La performance dei tre artisti – sottolinea il regista Alfonso Postiglione – si rivela una
sorta di rito dionisiaco dalle chiare valenze simboliche in cui la forza della creazione
artistica vince sui tentativi di censura e normalizzazione di una qualsivoglia autorità,
politica o sociale”.

Incentrata sul rapporto, spesso conflittuale, tra autorità costituita e azione artistica, questa
vicenda “sembra parlarci del nostro presente – aggiunge Postiglione – nonostante il testo,
tratto dalla sceneggiatura originale (che, per inciso, inizialmente Bergman scrive proprio
per il teatro), sia fedele al film diretto per la televisione svedese nel 1969”.
“Oltre al tema della censura – conclude il regista – subìta spesso da Bergman ai suoi
tempi, nel testo è forse ancora più centrale l’affermazione delle potenziali possibilità
destabilizzanti che possono scaturire da un atto artistico e della sostanziale impossibilità di
contenerne gli esiti. Il rito, infatti, oltre ad essere un tracciato umano raccontato dall’autore
attraverso l’immagine filmica, è soprattutto una partitura di parole e di rapporti fisici tra i
personaggi. Caratteristica, quest’ultima, che consente a noi oggi di avere piena possibilità
di eseguirla ed animarla nella cornice di uno spazio scenico teatrale”.

Teatro San Ferdinandlo | Napoli. Piazza Eduardo De Filippo 20
dal 27 febbraio al 3 marzo 2024
IL RITO
di Ingmar Bergman
traduzione di Gianluca Iumiento
adattamento e regia Alfonso Postiglione
con Elia Schilton (Giudice Ernst Abrahmsson)
Alice Arcuri (Thea Winkelmann), Giampiero Judica (Sebastian Fischer)
Antonio Zavatteri (Hans Winkelmann)
scene Roberto Crea
costumi Giuseppe Avallone
musiche Paolo Coletta
disegno luci Luigi Della Monica
partitura fisica Sara Lupoli
aiuto regia Serena Marziale
produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Ente Teatro Cronaca, Campania
Teatro Festival – Fondazione Campania dei Festival
durata spettacolo 1h e 40’

Info, calendario con orari rappresentazioni su www. teatrodinapoli.it
Biglietteria: tel. 081.5513396 / 081.292030 e-mail: biglietteria@ teatrodinapoli.it
orari: lunedì > venerdì dalle 10:30 alle 13:30 e dalle 14:00 alle 18:00
sabato dalle 10:30 alle 13:00.
IL RITO
note di regia
Il rito è tratto dall’omonimo film (in originale, Riten) scritto e diretto da Ingmar Bergman nel
1969, il primo da lui realizzato direttamente per la televisione, l’ultimo girato interamente in
bianco e nero. Bergman cominciò a scrivere pensandolo come allestimento teatrale per il
Dramaten di Stoccolma, incoraggiato dal favore di Erland Josephson, suo sodale e
consigliere. Ma il regista-autore ci ripensò e lo dirottò verso una “partitura filmata per primi
piani”. Il film è una sorta di cinema da camera, girato in interni con soli quattro personaggi, ed
è incentrato sul rapporto, spesso conflittuale, tra autorità costituita e azione artistica.

Lo spettacolo Il rito, nello specifico, è tratto dal testo originale integrale, da cui Bergman
sviluppò in seguito la sceneggiatura. Difatti, il testo risulta più esteso e approfondito, nella
parte dialogica, rispetto alla versione filmata, costituendosi come una sorta di inedito.
Tre attori di teatro di varietà (i coniugi Hans e Thea, e Sebastian, amante della donna) sono
stati denunciati per l’oscenità presunta di un numero del loro ultimo spettacolo. Un giudice
incaricato, il Dott. Abrahmsson, li interroga per decretarne l’eventuale condanna. Dai colloqui
con gli artisti – in cui si scoprono soprattutto le ambigue articolazioni dei rapporti tra i tre attori,
oltre la discutibile natura dello stesso giudice – l’uomo non riesce a farsi una idea chiara della
faccenda e finisce per assistere alla performance allestita nel suo stesso ufficio, al termine
della quale subirà conseguenze fatali.
La performance dei tre artisti si rivela una sorta di rito dionisiaco dalle chiare valenze
simboliche, in cui la forza della creazione artistica vince sui tentativi di censura e
normalizzazione di una qualsivoglia autorità, politica o sociale. E per ciò, il rito si configura
come una sorta di parodia delle Baccanti di Euripide, nel senso etimologico di una loro
ricantazione entro parametri estetici e sociali contemporanei. Il giudice può corrispondere
facilmente alla figura di Penteo, in aperta ostilità nei confronti dei tre artisti, dietro i quali si
celano identità e funzioni da sacerdoti dionisiaci. Ma forse, nel finale, si paventa la presenza
stessa del Dio, sotto le spoglie dell’eterno femminino, fascinoso e perturbante, di Thea.
Oltre la censura – subita spesso da Bergman ai suoi tempi, ed oggi strisciante in maniera
sempre meno latente tra le pieghe più varie del nostro vivere sociale – nel testo è forse ancora
più centrale il tema della impossibilità di contenere la potenzialità destabilizzante dell’atto
artistico, votato a stanare le verità dell’essere umano, a rischio anche della morte.
Il testo si sviluppa in nove scene – la prima e l’ultima con i quattro attori, le altre da coppie
degli stessi – ambientate esclusivamente in interni – una camera d’albergo, un ufficio, un bar, il
camerino di un teatro – spazi volutamente claustrofobici. I rapporti tra i personaggi sono tesi e
affilati e posseggono una forza interlocutoria che tiene desta l’attenzione fino all’inaspettato
finale.
La scena dello spettacolo, si presenta come una grande scatola interamente bianca, indefinita
e assoluta, al centro della quale campeggia una piattaforma sospesa, su cui è allestito,
completamente in nero, l’ufficio del giudice Abrahmsson.
L’uomo è rintanato lì sopra, rifugiato dal mondo, protetto dal suo abito istituzionale.
Non osa, forse non può, o non sa, allontanarsi dal suo ambito. I tre artisti agiscono sul bianco
ineffabile nelle loro intime relazioni, quando non interrogati dall’autorità del magistrato, che li
accoglie, alternandoli, sulla piattaforma-ufficio. In realtà, nonostante la cooptazione ufficiale, il
loro è una sorta di assedio volontario, di assalto all’istituzione, di contagio artaudiano con i
germi della loro libertà artistica e del loro consapevole azzardo esistenziale.
Il rito, teatralmente, è soprattutto una partitura di parole e rapporti fisici tra i personaggi. La
natura muscolare e nervale delle fisionomie al centro della vicenda ne fanno materia per un
moderno kammerspiele. L’aggressività è evidente, nei confronti tra le parti, e risalta la
scontrosità delle identità in gioco.
Il giudice si mostra dapprima rispettoso, cerimonioso, quasi adulatorio nei confronti dei tre
artisti chiamati a dar conto del loro spettacolo. I tre sono divi, famosi, privilegiati elementi
umani da preservare sul loro piedestallo, e lui è un semplice servitore della comunità.
Ma già dopo la prima scena, il gioco si fa progressivamente più prepotente da parte del
censore. L’azione scardinante dei vari interrogatori comincia a mostrare i meccanismi che
regolano i rapporti, moralisticamente discutibili, del terzetto di artisti.
Le dichiarazioni diventano vere e proprie confessioni, sempre più intime. Ci sembra quasi di
sentire i miasmi e avvertire i rumori interiori di queste individualità tenute insieme da relazioni
malate, sul filo dell’eccezione. L’atto confidente diventa liberatorio. Tanto che vien quasi il
sospetto che ci provino gusto a farsi umiliare. E allora sotto un’inchiesta dai vaghi toni kafkiani,
con l’accusa di oscenità ci finisce la vita stessa, nel nostro caso quella di tre individui, troppo
liberi e creativi rispetto alla morale comune. E si dispiegano dunque la fragilità e ipersensibilità

nevrotica della bellissima Thea, la vanità violenta dell’irresponsabile Sebastian, la razionalità
noiosa di un più calcolatore Hans.
Ma a poco a poco i piani iniziano a ribaltarsi. Nell’istruttoria, sempre più ambigua e crudele, il
giudice svela le sue frustrazioni e sgradevolezze, abbrutito da una disperata solitudine e
ricattato dalle debordanti umanità dei tre artisti.
E allora tutti fanno a gara a mettere in scena la propria più marcia e intima verità. Nell’ultima
scena, dove c’è il rito per antonomasia, quello dionisiaco della Elevazione, c’è il lasciarsi
andare definitivo, il consegnare il peso di una intera esistenza.
Il rito di cui forse ci parla davvero Bergman è dunque quello dello svelarsi, raccontarsi, esibirsi
continuamente e sfacciatamente e così facendo consegnare le proprie colpe a qualcuno,
fosse anche la colpa ultima di vivere, rischiando anche di perderla, la vita.
Il giudice qui diventa spettatore privilegiato di un teatrino personale e segreto, che esibisce
progressivamente le nature autentiche e dunque inesorabili delle persone (dei personaggi).
Ma egli stesso ne approfitta, in uno scambio delle parti, per manifestarsi soprattutto a se
stesso, verso un atto catartico che afferma la necessità, fin dalle notti dionisiache, dell’atto
ineludibile della (auto)rappresentazione.
Allo stesso tempo, denunciare come osceno un rito (seppur di origine ellenica, per cui pagana)
accusando l’arte e gli artisti di essere portatori (in)sani dell’atto misterico, ci spinge a
sospettare, ancora oggi, dopo anni dalle riflessioni bergmaniane, che l’unica sacralità possibile
– intesa come summa di valori universali a cui è sempre più difficile appellarsi – sia contenuta,
prima ancora che nell’atto, nello sforzo artistico. E ciò, in un mondo che si impegna a
celebrare quotidianamente, pure compiacendosi, la lunga agonia dell’estinzione di Dio. E
dell’uomo.

Alfonso Postiglione

NOTE BIOGRAFICHE
Alfonso Postiglione
Nasce a Napoli nel 1970. Attore e regista, si forma alla Civica Scuola d’Arte Drammatica
Paolo Grassi di Milano. Come attore teatrale lavora, tra gli altri, con Marco Baliani, Gigi
Dall’Aglio, Davide Iodice, Massimiliano Civica, Giancarlo Sepe, Claudio Di Palma, Luca De
Fusco, Leo Muscato, Ruggero Cappuccio, Gabriele Russo e con gli stranieri Eimuntas
Nekrosius, David Greig e Graham Eatough. Al cinema e nella fiction tv, lavora con Paolo
Sorrentino, Antonio Albanese, Alberto Sironi, Maurizio Zaccaro, Alessandro Angelini, Stefano
Sollima, Francesca Comencini, Mario Martone, Lucio Pellegrini, Luca Miniero, Roberto Andò e
con Terrence Malick e Xavier Giannoli.
Nel 1995, è co-fondatore della compagnia Rossotiziano, tra le formazioni più riconosciute del
nuovo teatro italiano degli anni ‘90 e attiva fino al 2005, per cui lavora come attore, regista e
autore di nuova drammaturgia. Oltre venti le sue regie teatrali, e dirige anche nell’audiovisivo
diversi documentari, videoclip musicali e cortometraggi, per cui vince vari festival, e nel 2009 il
Globo d’Oro della stampa estera in Italia. Nel 2015 ha diretto a teatro La riunificazione delle
due Coree di Joel Pommerat prodotto da Ente Teatro Cronaca. Tra le ultime regie, la biografia
teatrale del pu- gile Patrizio Oliva, Patrizio vs Oliva e diversi progetti per il Teatro di Napoli-
Teatro Nazionale, tra cui il dittico dell’autore americano Neil LaBute, Autobahn e Fat Pig. Nel
2021, sempre per il Teatro di Napoli, in coproduzione con Mad Entertainment e Mosaicon Film,
dirige l’esperimento tra teatro e cinema, La vita nuda, filmdrama dalle novelle di Luigi
Pirandello.

Elia Schilton
Di madrelingua francese, si diploma presso l’Accademia dei Filodrammatici di Milano con
Ernesto Calindri.Lungo il proprio percorso teatrale ha fortunatamente incontrato Mario
Missiroli, Luca Ronconi, Carlo Cecchi, Peter Stein, Aleksandr Sokurov… Nel corso delle
Stagioni Teatrali più recenti, è stato “Tartufo” per la regia di Carlo Cecchi, grande Maestro, con
il quale ha affrontato, negli anni, Shakespeare, Molière, Ibsen, Cechov, Bernhard. Peter Stein,
nuovo felice incontro, lo ha diretto in “I Demoni” di Dostoevskij, spettacolo rappresentato in
svariate capitali, a cui è seguito “Il ritorno a casa” di Harold Pinter. “Il prezzo” di Arthur Miller è
la commedia interpretata all’interno della Compagnia Orsini, per la regia di Massimo Popolizio.
Nella sua prima regia per il Teatro, Aleksandr Sokurov, lo dirige in Go. Go. Go. tratto da
“Marmi” di Joseph Brodsky. Ma è la volta di “Qohélet” nella traduzione di G. Ceronetti – in
lingua italiana e in ebraico su musica e danza – per la regia di Federica Santambrogio. “Cita a
ciegas” di Mario Diament lo ha visto in scena per la regia di Andrée R. Shammah. Per lo
stesso autore e sempre diretto da A.R. Shammah ha interpretato Salomon Shylock
nell’omonima commedia. E poi… da “Il Sosia” di Dostoevskij e dall’adattamento di Fabio
Bussotti è nato lo spettacolo diretto da Alberto Oliva, e poi, e poi… Attualmente è in Tournée
con “Le nostre anime di notte”, dal romanzo di Kent Haruf, per la Regia di Serena Sinigaglia.
Per il Cinema è stato interprete, tra gli altri, in film di Brusati (“Lo zio indegno”), Fago
(“Pontormo”), Bondì (“De Reditu”), Papetti (“Noi due”), Sorrentino (“L’amico di famiglia”),
Mordini (“Lasciami andare”), Pif (“E noi rimanemmo a guardare”), Bellocchio (“Il traditore”),
Amelio (“Il signore delle formiche”). Per la Televisione ha recitato, tra gli altri, in film di Franco
Giraldi, Alberto Sironi, Mattia Torre, Danny Boyle, Gianluca Tavarelli, Christian Duguay.
Per la Radio ha prestato la voce, anche in lingua francese, a Testi teatrali e a Sceneggiati. La
lettura integrale di numerosi romanzi per Rai Radio 3, nutre e conforta con grande
soddisfazione, l’idea ─ non solo sua ─ che la Radio inviti a sognare.
Alice Arcuri
Alice Arcuri, nasce a Genova nel 1984, città dove si è laureata in lettere moderne con indirizzo
in Storia del teatro e di cui di recente è stata designata ambasciatrice nel mondo.Ha iniziato a
fare teatro per caso, dopo aver abbandonato la scherma agonistica, all’età di 16 anni. Nel
2003 è entrata alla Scuola del Teatro Stabile di Genova dove si è diplomata con il massimo dei
voti nel 2006. Nello stesso anno ho vinto il premio Hystrio come miglior attrice esordiente. Da
quell’anno ha iniziato a lavorare senza sosta, facendo tournée in giro per tutta Italia, ed in
poco tempo è diventata la prima attrice del Teatro Stabile di Genova. Nel frattempo ha lavorato
per molti spot pubblicitari.Nel 2021, anno in cui è mancato il suo Maestro Marco Sciaccaluga,
ha deciso di dedicarsi alla televisione e al cinema. Ha partecipato a serie tv Rai, Sky e Netflix
come Don Matteo, Petra, Blanca, Tutta colpa di Freud, Fedeltà, Sopravvissuti, Vivere non è un
gioco da ragazzi. È nel cast della serie campione di ascolti Doc – nelle tue mani a partire dalla
seconda stagione, e di recente è entrata a far parte di quello di Viola come il mare.
Prossimamente la vedremo su Rai1 coprotagonista a fianco ad Edoardo Leo, nella serie Rai Il
Clandestino, diretta da Rolando Ravello.Di recente è tornata anche a lavorare a teatro come
protagonista dello spettacolo il Rito di Bergman. Nel 2023 è stata ambasciatrice per il Fai.
Giampiero Judica
Giampiero Judica consegue il master in recitazione e regia presso l’Actors studio M.F.A presso
la New School of Social Research.. Dopo numerosissimi spettacoli teatrali da attore o regista
a New York e Los Angeles in sedi prestigiose come Circle in the square,La Mama e Mark
Taper Forum, dedicandosi sia a classici come Shakespeare, Pirandello, Eugene O’Neill, a più
moderni americani come Tennessee Williams, Clifford Odets e Tony Kushner tra gli altri. In
questi anni il pubblico ha avuto modo di conoscere e apprezzare il suo lavoro anche al cinema
ed in televisione in numerosissime serie televisive, tra cui ovviamente ama ricordare “The
Book Club 2”, with Jane Fonda and Diane Keaton,“All the money in the world” di Ridley Scott,
e lo show di HBO“ Boardwalk Empire” prodotto da Martin Scorsese, la nuovissima serie
spagnola Netflix “ H-Helena” di cui è stato uno dei protagonisti, la nuovissima serie Marvel “

Secret Invasion”. In Italia l’abbiamo visto in tantissime serie, “Tutto Può Succedere”, “Non
Uccidere”, “Raccontami”, in R.IS. “Medicina generale”, “Nardone” per citarne alcune fino a
“Passeggeri Notturni” di prossima uscita.
E’ membro a vita dell’Actor’s Studio di New York.In Italia ha calcato le scene un po’ ovunque: a
Roma,in particolare, al Teatro India,Valle, Quarticciolo, Belli, Cometa, e altri, alle Fonderie
Limone di Torino, al Teatro Due di Parma, Teatro Nuovo a Napoli, I.T.C. A Bologna,Pergola a
Firenze, al Teatro Elfo di Milano e moltissimi altri.Tra i titoli a cui è più legato ci sono: “Nema
Problema” di Laura Forti con la regia di Pietro Bontempo, “Servo per due” con la regia di Pier
Francesco Favino e Paolo Sassanelli, “La pace Perpetua” di Juan Mayorga con la regia di
Jacopo Gassmann, i Furiosi di Nanni Balestrini, “Fuorigioco” di Lisa Nur Sultan e l’ultimo “
Cresciuti in Cattività” di Nicky Silver, di cui cura anche la regia. Tra le altre regie ama ricordare
“ Blu” di Laura Forti e “ Il Bambolo” di Irene Petra Zani, entrambi interpretati da Linda Caridi.

Antonio Zavatteri
Nato a Torino nel 1967 si trasferisce nel 1991 per studiare recitazione alla scuola del Teatro
Stabile di Genova. Comincia la sua attività di attore con vari teatri nazionali lavorando con
registi quali Benno Besson, Matthias Langhoff, Marco Sciaccaluga, Alfredo Arias, Andrea De
Rosa, Luca Ronconi. Successivamente inizia l’attività da regista mettendo in scena vari
spettacoli tra cui La Bottega del Caffè, Don Giovanni, Poker di Patrick Marber, Le Prénom
(Cena tra Amici) e Thom Pain. Ha diretto Notte di Follia con Anna Galiena e La Parrucca di
Natalia Ginzburg con Mariamelia Monti. Per il Teatro Ambra Jovinelli ha messo in scena Le
Regole per Vivere e per il Teatro Stabile di Verona Alla Stessa Ora il Prossimo Anno. Ha
quindi diretto la commedia di Cesc Gay Vicini di Casa. Ha fatto parte della Popular
Shakespeare Kompany diretta da Valerio Binasco, con cui ha realizzato Romeo e Giulietta e
La Tempesta di W. Shakespeare, mentre con la regia di Filippo Dini lavora in Ivanov, Il
Borghese Gentiluomo e La Guerra di Klamm. È in Hedda Gabler di Liv Ferracchiati al Piccolo
Teatro di Milano e ne Il Rito di Bergman per la regia di Alfonso Postiglione. Da alcuni anni ha
cominciato un’intensa attività televisiva e cinematografica, lavorando tra l’altro in Gomorra – la
serie, in 1992 e Non Uccidere, nella serie tv Sense8 di Lana Wachowski; con Gabriele
Muccino (Baciami Ancora), Francesca Comencini (Un Giorno Speciale), Maria Sole Tognazzi
(Io e Lei) e Nanni Moretti (Mia Madre). Ha preso parte a Benedetta Follia di Carlo Verdone, Il
Miracolo, serie prodotta da Sky e diretta da Niccolò Ammaniti, è in Trust, serie tv di Danny
Boyle, Petra con Paola Cortellesi e Diavoli con P. Dempsey. Interpreta Arrigo Sacchi nel film Il
Divin Codino, e nel 2021 prende parte a 3/19, di Silvio Soldini e alla serie tv Rai Blanca.
Ultimamente è stato nel cast di Per Niente al Mondo di Ciro d’Emilio, nella serie FBI
International, prodotta da CBS e in The Bad Guy, serie prodotta da Prime Video e diretta da
Stasi e Fontana.

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