*Il disamore per la politica*
di Marcello Veneziani
In un editoriale sul Corriere della sera, ieri Sabino Cassese rilevava sconfortato la crisi epocale delle democrazie nel mondo. Sempre meno paesi sono retti da governi democratici, sempre meno abitanti nascono nei paesi democratici, sempre meno cittadini vanno a votare nei regimi democratici. Un deficit politico, demografico e istituzionale. Cassese passa poi ad analizzare le cinque ragioni di questa crisi. Ma via via che procedi nella lettura ti accorgi che le cinque ragioni ruotano intorno ad una, di cui sono varianti, corollari, estensioni: non c’è più amore per la politica. E non c’è più amore nella politica; quella molla originaria, quell’energia primaria è disattivata da tempo. La politica non suscita più passione, ideale e civile, né trasporto, sentimento di appartenenza, fierezza di tradizione, aspettativa di cambiamento. Resta solo una traccia deviata e perversa di quel sentimento: l’odio, la rabbia, il rancore, ma anche quel ri-sentimento tende a tradursi in disaffezione, non voto, scontentezza. Non conduce a fare politica ma in prevalenza ad allontanarsene. Vero è che i realisti, da Machiavelli a Hobbes a Carl Schmitt, hanno sempre detto che la politica sorge a partire dalla individuazione del nemico, dalla paura del nemico, internazionale o interno, e per compattarsi rispetto alla sua minaccia. Ma anche quella matrice “polemica”, ostile, era strettamente intrecciata alla passione comunitaria, che si collegava a un popolo, un territorio, uno stato. Il negativo aveva pur sempre un risvolto positivo.
L’amore si è andato gradualmente spegnendo in politica: quella scintilla che suscitava entusiasmo nei proseliti, si è via via raffreddata. E la motivazione politica, ovvero la spinta a impegnarsi, anche nella prospettiva di incidere e determinare conseguenze, si è andata spegnendo anche perché si è resa sempre più velleitaria l’aspettativa di determinare cambiamenti o resistenza ad essi. Non c’è più amore in politica, solo alcune simulazioni, o al più c’è una sorta di delega alle leadership di mimare, rappresentare e colmare questa carenza sul palcoscenico della politica. Altro che democrazia diretta, perfino le leadership più seguite, i capi che ricevono forti mandati seppure con aleatori consensi, non sono l’espressione di un’investitura popolare, di un consenso partecipativo ma sono frutto di una delega, anzi di un’abdicazione della sovranità popolare alla rappresentazione teatrale della sovranità. Provaci tu, pensaci tu, ben sapendo che alta è la probabilità di delusione delle aspettative e dunque breve è la parabola in cui perdura questa investitura. L’elezione diretta del capo del governo o dello stato, in questa fase, non indica un decisionismo partecipativo, a furor di popolo, ma un mandato a sbrigarsela direttamente lui, a semplificare e a figurare, con ampio ma labile mandato.
Il deficit della politica è dunque di natura metapolitica, risale cioè a una motivazione assente, a un’intenzione che precede la politica e che viene a mancare sempre più per disinteresse, delusioni reiterate e per quel ripiegamento nell’intimo, nel privato, nel soggettivo che costituisce la vera malattia mortale delle democrazie, e più in generale della politica. Nutrita ulteriormente dalla convinzione che i processi della tecnologia rendano obsolete le decisioni politiche, superate o impotenti le azioni governative. Una specie di governo artificiale domina su di noi, ed è quella la vera sala di comando che determina i fatti; la politica si limita a sceneggiare queste decisioni, cioè recita la sua parte nella teatrocrazia, ma ben sappiamo che la fonte primaria delle decisioni non deriva dalle volontà dei governanti ma dall’inesorabile consequenzialità dei processi tecnici ed economici che sovrastano gli stati nazionali.
L’amore, sostengo nel mio ultimo libro dedicato all’amore, è uno sporgersi fuori di sé, un aprirsi al mondo e agli altri, ma in un’epoca narcisista e autoreferenziale, nulla ci spinge a rendere estroverse queste cure e premure rivolte a noi stessi. Senza amore non c’è politica, ma solo gestione; senza amore c’è governance, non sovranità. Il modello reale del politico è ormai quello del sovrano nelle monarchie costituzionali: reign but non rule, regna ma non governa, è la formula della monarchia britannica che si è allargata ormai a tutte le repubbliche e democrazie. Ovvero i margini di decisioni sovrane si sono molto ridotti, gran parte delle tendenze di governo sono pilotate o si adeguano a trend sovranazionali prestabiliti. Il potere si fa simbolico, rituale, sempre meno fattivo e tantomeno rivoluzionario, se non è in sintonia con la macro-direttiva a cui attenersi. L’amore è fatto di ritmi e aritmie, i percorsi della politica sono guidati da algoritmi e logaritmi.
La politica senza amore è la politica senza passione ideale e civile, senz’anima, senza motivazione; senza quell’impulso che non nasce semplicemente dal calcolo, dal tornaconto o dallo scambio mercantile. Una collezione di carriere individuali è oggi la politica, a unirle è la reciproca utilità e convenienza, fino a che dura, così come la leadership è riconosciuta se genera profitto in questo contesto, e finisce di essere riconosciuta quando non lo genera più. Tutto quel che è stato disprezzato come ideologia, retorica, estremismo, fondamentalismo, religione politica, aveva una radice in quella passione. Che naturalmente s’intrecciava strettamente con interessi reali, bisogni avvertiti, necessità. Ma ora non c’è più quell’intreccio, restano solo gli interessi da difendere. La mobilitazione è strumentale. Non c’è un popolo che avanza, al più una fila di trattori