Presentato al foyer del Mercadante

Presentato dal regista Roberto Andò e dalla compagnia di interpreti

lo spettacolo Sarabanda di Ingmar Bergman che debutterà in prima nazionale nel teatro di Piazza Municipio

martedì 7 gennaio con repliche fino a domenica 19.

Martedì 7 gennaio 2025 al Teatro Mercadante
debutta in prima nazionale lo spettacolo

SARABANDA
di Ingmar Bergman
nella traduzione di Renato Zatti
con la regia di Roberto Andò

interpretato da

Renato Carpentieri, Alvia Reale, Elia Schilton, Caterina Tieghi

«Un canto sulla mancanza d’amore che nella sua intensità

si rovescia in una spasmodica ricerca d’amore. Un poema sul paesaggio interiore

dello sconforto e del congedo dal mondo».

Roberto Andò – direttore del Teatro di Napoli/Teatro Nazionale – torna alla regia teatrale firmando
la messa in scena di SARABANDA di Ingmar Bergman nella traduzione di Renato Zatti, che
vede protagonista uno straordinario cast di interpreti come Renato Carpentieri, Alvia Reale, Elia
Schilton, Caterina Tieghi.
Prodotto dal Teatro di Napoli – Teatro Nazionale con il Teatro Nazionale di Genova e il Teatro
Biondo di Palermo, lo spettacolo debutterà in prima nazionale martedì 7 gennaio 2025 al Teatro
Mercadante, dove replicherà fino a domenica 19 gennaio.
Le scene e le luci sono di Gianni Carluccio, i costumi di Daniela Cernigliaro, le musiche
di Pasquale Scialò, il suono di Hubert Westkemper.
«Sarabanda – scrive Andò nelle note allo spettacolo – è il film-testamento di Ingmar Bergman. Il
grande regista lo girò nel 2003 con una telecamera digitale, affidandolo a due attori simbolo della
sua filmografia come Erland Josephson e Liv Ulmann. È concepito in dieci scene in cui, volta per
volta, si avvicendano due dei quattro personaggi che ne compongono il disegno. Una struttura
musicale che allude alla sarabanda, una danza per coppie solenne e lasciva che venne proibita
nella Spagna del sedicesimo secolo, per poi essere adottata da grandi compositori come Bach o
Handel».
In questa sorta di testamento artistico, il Maestro svedese torna a parlare dei protagonisti di Scene
da un matrimonio diventati, trent’anni dopo, più maturi ma anche più spietati. Il loro è un ultimo
confronto che, in presenza di un figlio e di una nipote, evidenzia le molteplici sfumature delle
relazioni umane e familiari e la loro capacità di generare rimpianti, rimorsi, rancori. Il mistero
dell’amore e dell’odio, l’ineluttabile conflitto tra genitori e figli, tra indifferenza e attaccamento
morboso, la vecchiaia, l’angoscia degli «ultimi giorni», lo scenario della vita, «troppo grande» per
la debolezza umana, sono i temi di questa Sarabanda, danza lenta e severa in cui le coppie si
formano e si disfano: dieci scene, dieci dialoghi in cui i personaggi s’incontrano a due a due, per
sciogliersi definitivamente nell’esecuzione di padre e figlia della omonima suite bachiana.
Un testo scomodo nella sua cruda onestà, ma il cui vero messaggio non è affidato alle parole, ma
ai silenzi e ai gesti: alla tenerezza di un abbraccio, di un tenersi per mano, di un denudarsi
accettando di rivelare l’uno all’altro la fragilità di corpi segnati dal tempo e dal peso di vivere. «Il

Bergman di Sarabanda – sottolinea ancora il regista – non sembra credere più a nulla, è
disperatamente distruttivo, e incatena i propri personaggi a un pessimismo totale sul senso delle
relazioni umane».
I quattro personaggi protagonisti della vicenda sono affidati a Renato Carpentieri nel ruolo di
Johan, Alvia Reale in quello di Marianne, Elia Schilton nei panni di Henrik, Caterina Tieghi
quelli di Karin.
TEATRO MERCADANTE: 7 > 19 gennaio 2025
in prima nazionale
SARABANDA
di Ingmar Bergman
traduzione Renato Zatti
regia Roberto Andò
con Renato Carpentieri, Alvia Reale, Elia Schilton, Caterina Tieghi
scene e luci Gianni Carluccio
costumi Daniela Cernigliaro
musiche Pasquale Scialò
suono Hubert Westkemper
aiuto regia Luca Bargagna
assistente ai costumi Pina Sorrentino
assistente alle scene Sebastiana Di Gesù
direttore di scena Sandro Amatucci
datore luci Theo Longuemare, Giuseppe Di Lorenzo
fonico Alessandro Innaro
capomacchinista Enzo Palmieri
macchinista Fabio Barra
elettricista e fonico di palco Diego Contegno
sarta Nunzia Russo
foto di scena Lia Pasqualino
una produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Teatro Nazionale di Genova, Teatro
Biondo Palermo
in accordo con Arcadia & Ricono Ltd
per gentile concessione di Joseph Weinberger Limited (agente del copyright), Londra, per conto
della Ingmar Bergman Foundation
ufficio stampa Sergio Marra |responsabile
Valeria Prestisimone
Durata dello spettacolo 1h e 40’ circa
Calendario rappresentazioni
07/01/2025 ore 21:00 | 08/01/2025 ore 17:00 | 09/01/2025 ore 17:00
10/01/2025 ore 21:00 | 11/01/2025 ore 19:00 | 12/01/2025 ore 18:00
14/01/2025 ore 21:00 | 15/01/2025 ore 17:00 | 16/01/2025 ore 17:00
17/01/2025 ore 21:00 | 18/01/2025 ore 19:00 | 19/01/2025 ore 18:00
Info: teatrodinapoli.it | Biglietteria: biglietteria @teatrodinapoli.it | tel. 081.5513396

Sarabanda, un’opera terminale
di Roberto Andò
Sarabanda è il film-testamento di Ingmar Bergman. Il grande regista lo girò nel 2003 con
una telecamera digitale, affidandolo a due attori simbolo della sua filmografia come Erland
Josephson e Liv Ulmann. È concepito in dieci scene in cui, volta per volta, si avvicendano
due dei quattro personaggi che ne compongono il disegno. Una struttura musicale che
allude alla sarabanda, una danza per coppie solenne e lasciva che venne proibita nella
Spagna del sedicesimo secolo, per poi essere adottata da grandi compositori come Bach
o Handel. Come disse lo stesso Bergman in una intervista «essa finì col diventare una
delle quattro danze fisse nelle suite strumentali barocche, inizialmente come primo
movimento, poi come terzo».
Sarabanda è l’opera più radicale di Bergman e sembra riconsiderare i grandi quesiti che il
maestro svedese aveva affrontato nelle pellicole precedenti. Anche se è ritenuto un sequel
di Scene da un matrimonio, a ben vedere è un film del tutto autonomo. Conosciamo le
parole con cui il regista introdusse il lavoro alla troupe e agli interpreti: «Quello che stiamo
per fare può apparire semplice: un prologo, dieci dialoghi, un epilogo. È bene che sappiate
che sarà estremamente difficile. È la mia ultima regia: esigerò il massimo da me e da voi.
Non avrò pietà». Parole chiare, come sempre. Parole che mostrano quanto considerasse
cruciale l’opera che aveva in mente. Un’opera, per l’appunto, terminale.
La famiglia, la solitudine, l’arte come possibile redenzione, la vecchiaia, la morte sono
alcuni dei temi attorno a cui ruotano i dialoghi di quella che si può definire una vera e
propria pièce di teatro (Bergman fu a lungo indeciso sulla forma più congeniale cui affidare
l’opera che stava concependo, se teatro, radio o cinema). Temi che sono ben presenti
anche nella grande drammaturgia di Strindberg, di Ibsen, di Fosse, in una continuità che,
al di là dell’originalità delle singole voci, tratteggia le linee di un preciso paesaggio
esistenziale.
Il Bergman di Sarabanda non sembra credere più a nulla, è disperatamente distruttivo, e
incatena i propri personaggi a un pessimismo totale sul senso delle relazioni umane.
Il plot è un pretesto: Marianne va a trovare Johan, il suo ex marito, nella casa isolata dove
si è ritirato. Il soggiorno dovrebbe durare pochi giorni e invece si prolunga per alcune
settimane. L’animo dell’uomo è inquieto, in rotta col mondo e anche con il figlio Henrik che
vive poco distante da lì insieme alla figlia diciannovenne, Karin, promettente interprete del
violoncello.
L’andamento in cui si incastrano le scene è musicale e i nodi, i conflitti dei personaggi non
sembrano sciogliersi mai, si susseguono irrisolti nella loro brutale drammaticità, anche se
a volte sembrano inchinarsi all’ineffabile, come nella sibillina indicazione apposta da
Hindemith per interpretare il movimento di una sua sonata: «Lebhaft ohne Ausdruck» (vivo
senza espressione).
Se in Fanny e Alexander Bergman si teneva stretto al calore dei riti familiari e al teatro
come guscio protettivo in cui è ancora possibile ricreare un mondo illusorio, in Sarabanda
la vita è rappresentata nella dimensione di una angosciante bipolarità – la depressione è il
vero tema sui cui è costruito il film –, in un’assillante resa dei conti con i fantasmi del
passato, con la paura della morte, con il senso di colpa. Riecheggia il Kierkegaard di
Timore e tremore e Sull’angoscia.
Anche per Bergman «la disperazione è la malattia mortale, un eterno morire senza morire,
l’assenza della speranza di poter vivere». Nonostante sia molto dialogato, come in tutti i
film di Bergman, anche in Sarabanda è decisivo il valore del silenzio e del gesto. I
personaggi si rivelano più in quello che non dicono che in quello che dicono. D’altronde, in
una storica intervista televisiva Bergman dichiarò che «la sua sfiducia nella parola era tale

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da fargli considerare la sola forma di verità il silenzio». In Sarabanda ci si parla per ferirsi,
o per riferire di ferite passate, senza che sia mai possibile una minima intesa. Come è
difficile trovarvi una traccia di speranza. Anche se forse, per momenti fuggevoli, l’autore
sembra affidarla a Karin, la giovane aspirante solista che verso la fine della pièce esprime
l’intenzione di liberarsi del padre per entrare nell’orchestra diretta da Claudio Abbado,
sperimentando la gioia di suonare con gli altri. Per il resto, regna l’amarezza, il
risentimento, l’odio. Come in Festen di Vinterberg, film molto amato da Bergman, non c’è
salvezza per la coppia, come non c’è ricomposizione possibile per il filo di trasmissione
genitori-figli (nel rapporto tra Henrik e Karin affiora anche il tema dell’incesto). Insomma, il
mondo della relazione è disperato e misero. Un inferno strindberghiano dove cova solo il
disamore. Dove non c’è spazio per alcuna trascendenza. Talmente spietato da creare
l’effetto contrario. Un canto sulla mancanza d’amore che nella sua intensità si rovescia in
una spasmodica ricerca d’amore. Un poema sul paesaggio interiore dello sconforto e del
congedo dal mondo.

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